Diritto di critica del direttore generale nei confronti dell’operato del datore di lavoro: quando il licenziamento può ritenersi legittimo?
a cura di avv. Enzo Pisa e avv. Elena Bissoli
Con sentenza n. 17689 del 31.05.2022, la Corte di Cassazione si occupa del diritto di critica sul luogo di lavoro, chiarendo, in particolare, i limiti entro i quali tale diritto possa essere esercitato da parte d’un dirigente.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha esaminato il caso d’un dirigente, con qualifica di direttore generale, da poco assunto, licenziato perché, nel corso del consiglio d’amministrazione della società datrice di lavoro, convocato per l’approvazione del bilancio, aveva manifestato il proprio dissenso sul contenuto della bozza di bilancio, evidenziando alcune asserite irregolarità contabili – rivelatesi infondate, in seguito alle verifiche svolte – commesse dai membri dello stesso C.d.A. (e d’altri dirigenti), tali da configurare, astrattamente, illeciti penali e/o amministrativi.
La Cassazione, annullando l’impugnata decisione della Corte d’appello, ha accolto il ricorso del dirigente, soffermandosi, dapprima, sul diritto di critica del lavoratore, che trova fondamento nell’art. 21 della Costituzione e conferma nell’art. 1 dello Statuto dei lavoratori.
La S.C. – dopo aver osservato che, “nel rapporto di lavoro, l’esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro deve essere contemperato col dovere di fedeltà posto dall’art. 2105 c.c. a carico dei lavoratori, oltre che con il rispetto dei generali canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto” – ha richiamato la consolidata giurisprudenza, che, “nel tracciare un equo componimento dei diversi beni di rilievo costituzionale”, ha affermato che “l’esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero, sia che si realizzi attraverso l’espressione di critiche, purché nei limiti di continenza formale e materiale tracciati, e sia che si traduca nella denuncia alle autorità competenti di fatti illeciti, di rilievo penale o amministrativo, purché non di carattere calunnioso, non possa di per sé costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento. L’obbligo di fedeltà imposto al lavoratore non può spingersi fino al punto da comprimere, oltre i limiti sopra individuati, l’esercizio del diritto tutelato dall’art. 21 Cost. e dallo Statuto dei lavoratori”.
La pronuncia in esame è d’interesse – come osservato dalla stessa S.C. – per le “peculiarità […] legate alla qualifica del lavoratore come dirigente e direttore generale della società, con le implicazioni che da ciò discendono, sia per le responsabilità connesse alla figura di direttore generale e sia per il rilievo, oltre che della giusta causa, anche della giustificatezza del licenziamento”.
S’è reso necessario, infatti, un approfondimento sulle specifiche responsabilità legate a tale figura e sul diritto al dissenso quale meccanismo d’esonero da responsabilità, posto che, in base al combinato disposto degli artt. 2392 e 2396 c.c., il direttore generale può andare esente da responsabilità da mala gestio qualora manifesti e faccia annotare senza ritardo il suo dissenso – che non necessita d’essere “corredato da specifica documentazione a supporto” – nel libro delle adunanze del C.d.A., dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale.
Sul punto, la S.C. ha ritenuto che la statuizione d’appello, laddove ha ritenuto che la manifestazione di dissenso del direttore generale “esorbitasse dall’ambito d’applicazione di cui agli artt. 2392 e 2396 c.c., per avere egli esposto le critiche ‘‘pubblicamente’’, senza documenti a supporto e sapendo che si trattava di una bozza di bilancio modificabile, è frutto di un’errata interpretazione di tali disposizioni”.
Circa, poi, le critiche mosse dal direttore generale all’azienda, la S.C., contrariamente a quanto deciso dal giudice di secondo grado, ha ritenuto che esse non integrassero né la giusta causa di recesso, non potendosi attribuire “rilevanza disciplinare […] alla condotta di un lavoratore, dirigente e direttore generale che, senza neanche rivolgersi all’autorità giudiziaria o amministrativa, si limiti a ipotizzare la configurabilità di illeciti penali o amministrativi, mettendo in guardia i soggetti insieme a lui teoricamente responsabili, e ciò faccia nelle sedi e con le modalità specificamente previste dall’ordinamento, come negli artt. 2392 e 2396 c.c.”, né il requisito di giustificatezza del licenziamento (nozione di matrice e disciplina esclusivamente contrattuale, che, “legata alla particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, non s’identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo di cui alla L. 604/1966, art. 1, potendo rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame fiduciario con il datore“), rilevando “come il legame fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro dirigenziale non possa determinare alcuna automatica compressione del diritto di critica, di denuncia e di dissenso spettante, secondo i principi costituzionali e le norme di diritto sopra richiamate, al lavoratore. Dal che ne consegue che anche nel rapporto di lavoro dirigenziale e ai fini della giustificatezza del recesso, il giudice di merito deve procedere ad una accurata opera di componimento tra l’accentuato obbligo di fedeltà – legame fiduciario – del dirigente e il diritto di critica, di denuncia e di dissenso al medesimo spettante, escludendo che l’esercizio di tali diritti, ove avvenga nei limiti già tracciati dalla giurisprudenza e quindi in maniera ragionevole e non pretestuosa, nonché con le modalità formalmente corrette, possa integrare di per sé gli estremi della giustificatezza del licenziamento”.
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