Ecco perché è necessaria una profonda riforma dei mercati finanziari | Ignacio de la Torre, Arcano Partners
Nel 1309 la Repubblica di Venezia mise in vendita delle obbligazioni, presso il ponte di Rialto, per finanziare le guerre che stava combattendo.
Era la prima volta che uno Stato si rivolgeva al mercato e non alle banche per finanziarsi.
Durante le guerre napoleoniche la Francia si finanziò principalmente con prestiti bancari, l’Inghilterra con obbligazioni, con un costo finanziario inferiore a quello di Napoleone.
Da allora i mercati sono stati la principale fonte di finanziamento sovrano.
Le prime borse sono nate nei Paesi Bassi e in Inghilterra nel corso del XVII secolo e hanno permesso di convogliare i risparmi nelle azioni delle società con le migliori prospettive di crescita, gettando così le basi del capitalismo.
A loro volta, le grandi aziende hanno emesso obbligazioni soprattutto a partire dal XIX secolo per diversificare il finanziamento bancario.
A partire dal 1979 i mercati hanno finanziato anche il debito delle imprese più rischiose, attraverso il mercato delle obbligazioni ad alto rendimento.
Ma gli eccessi associati alla bolla internet della fine degli anni 90 hanno portato a una regolamentazione dei mercati finanziari onerosa per le aziende, scoraggiando le imprese a quotarsi.
Parallelamente è nata un’industria del private equity per finanziare le imprese, sia quelle innovative (venture) sia quelle consolidate.
Se Amazon si è quotata in borsa nel 1997 con una capitalizzazione di mercato di soli 600 milioni di dollari (oggi vale quasi 2.000 miliardi di dollari) e un prospetto di non più di 80 pagine, Uber è riuscita a rimanere non quotata fino a quando non ha raggiunto una valutazione di 80 miliardi di dollari e, quando si è quotata, il suo prospetto era di circa 300 pagine.
Inoltre le riforme in tema di ricerca sul mercato azionario hanno accelerato il declino delle borse, soprattutto tra le mid-cap.
Non c’è da stupirsi che negli ultimi vent’anni il numero di società quotate in borsa negli Stati Uniti, ad esempio, si sia all’incirca dimezzato.
Secondo le stime dell’Ocse, dal 2005 il numero di società quotate in borsa si è ridotto di circa 15.000 unità tra gli Stati Uniti e l’Europa, una cifra appena compensata dalle poche nuove ipo.
Parallelamente, si stima che l’industria globale del private equity, creata negli anni 80, possa valere oggi circa 8.000 miliardi di dollari, o 16.000 miliardi se si tiene conto del debito utilizzato per acquistare le aziende.
Si tratta di un valore superiore al pil della Cina e leggermente inferiore a quello degli Stati Uniti.
I mercati azionari mondiali nel loro complesso valgono circa 100.000 miliardi di dollari.
Negli ultimi anni si sono fatti strada nel debito delle imprese anche i finanziamenti privati che consentono di convogliare il denaro dei fondi di investimento direttamente alle aziende.
A livello globale, il direct lending oggi può valere 2.000 miliardi di dollari, una cifra non trascurabile se si considera che il mercato globale delle obbligazioni societarie vale circa 30.000 miliardi di dollari.
Sebbene sia sempre bene diversificare le fonti di finanziamento, il declino dei mercati finanziari dovrebbe allarmare tutti noi.
I mercati delle obbligazioni sovrane sono più illiquidi e più volatili.
I mercati azionari sono diventati sbilanciati verso i piccoli titoli a grande capitalizzazione e svolgono sempre meno il loro ruolo di finanziamento delle medie imprese di successo.
Inoltre, nell’area dell’euro la scarsa liquidità dei mercati finanziari è suddivisa su 27 mercati diversi, rendendo difficile la comparabilità e generando un esodo di risorse (250 miliardi di euro all’anno secondo il recente rapporto Letta) verso mercati più efficienti e liquidi come quello statunitense.
Gli investimenti che dovremo affrontare nei prossimi anni per la transizione climatica, le infrastrutture e la difesa sono enormi.
Solo una riforma profonda e intelligente dei mercati finanziari permetterà di affrontare questa sfida.
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