Licenziamento disciplinare: applicazione della tutela reintegratoria e condotta illecita del lavoratore
La Corte di Cassazione, con sentenza 11.04.2022 n. 11665, intervenendo in tema di licenziamento disciplinare, ha stabilito che al giudice “è consentita la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore e in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo”.
La vicenda controversa riguardava il licenziamento per giusta causa di un lavoratore, cui erano stati contestati dal datore di lavoro tre episodi consistenti, rispettivamente, nella denigrazione dei suoi superiori in una chat privata, nella mancata denuncia di un’aggressione subita da un collega e nell’omessa trasmissione dei turni di servizio di personale in seguito alla specifica richiesta della Questura.
La Corte d’Appello, in sede di reclamo avverso la sentenza del Tribunale, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento e disposto la reintegrazione del lavoratore e la condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità risarcitoria, ex art. 18, c. 4, L. 300/1970, riformava parzialmente l’impugnata pronuncia, dichiarando risolto il rapporto di lavoro e condannando quest’ultimo al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 20 mensilità, ex c. 5 art. cit.; il lavoratore proponeva, quindi, ricorso per cassazione.
Nello specifico, il Supremo Collegio è dovuto intervenire in merito alla possibilità o meno per il giudice di merito di poter ricondurre la condotta contestata al lavoratore ad una delle fattispecie, punite con sanzione conservativa, previste dalla contrattazione collettiva anche in quei casi in cui queste ultime fossero descritte con clausole di carattere generale, dovendosi eventualmente condannare il datore di lavoro, ai sensi del c. 4 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, alla reintegrazione del lavoratore, laddove tale attività di sussunzione desse esito positivo.
La Cassazione, accogliendo le doglianze del lavoratore, ha affermato che la L. 92/2012 ha inteso “introdurre una graduazione in base alla quale la reintegrazione è consentita per le ipotesi in cui l’illegittimità del recesso è, per così dire, maggiormente evidente e dunque, in via generale dove il fatto addebitato non sussista ovvero nel caso in cui quel fatto sia punito dalla disciplina collettiva applicabile con una sanzione conservativa. […] In sintesi, al giudice è chiesto di procedere ad un giudizio più completo ed articolato rispetto al passato. Gli è richiesto infatti con una sorta di valutazione bifasica di accertare la sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, nel caso in cui lo escluda, anche il grado di divergenza della condotta datoriale dal modello legale e contrattuale legittimante”.
La stessa S.C. ha precisato, poi, che “poiché al giudice è demandato di interpretare la norma collettiva […] anche per individuare la tutela in concreto applicabile, laddove la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva attraverso una clausola generale – graduando la condotta con riguardo ad una sua particolare gravità ed utilizzando nella descrizione della fattispecie espressioni che necessitano di essere riempite di contenuto – rientra nel compito del giudice riempire di contenuto la clausola utilizzando standard conformi ai valori dell’ordinamento ed esistenti nella realtà sociale in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità”.
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