Il trasferimento di residenza fiscale in Italia ai tempi del Covid-19
A cura dell’avv. Enrica Caon
Le misure volte al contenimento della diffusione del contagio da Covid-19 hanno imposto forti limitazioni alla libertà di spostamento, costringendo di fatto molte persone a rimanere in un determinato Paese, con conseguenze in termini di radicamento della residenza fiscale.
L’OCSE, in un documento dello scorso 3 aprile ha dettato alcune linee guida sull’argomento, richiamando il Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni e le regole ivi previste.
Preliminarmente occorre richiamare i principi generali in vigore nell’ordinamento giuridico italiano circa l’acquisizione della residenza fiscale.
Ai sensi dell’art. 2, comma 2, TUIR, “si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile”. Le risultanze anagrafiche, il domicilio e la residenza sono, quindi, ai sensi di tale disposizione i tre presupposti necessari per l’acquisizione della residenza fiscale italiana. Al fine di stabilire la residenza fiscale in Italia è dunque sufficiente che la persona fisica, abbia per la maggior parte dell’anno (vale a dire per un lasso di tempo superiore a 183 giorni nell’arco di un anno solare) la residenza, il domicilio in Italia o sia iscritta presso le anagrafi della popolazione.
L’iscrizione ai registri anagrafici costituisce infatti per la Suprema Corte di Cassazione (sent. n. 21970/2015) presunzione assoluta di residenza in Italia, senza possibilità, quindi, di prova contraria, mentre la residenza, è, ai sensi dell’art. 43, comma 2, del codice civile “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale”. Ne deriva che essa è determinata, da un lato dal fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo, dall’altro dall’elemento soggettivo proprio della volontà di rimanervi. La residenza pertanto non viene meno per assenze più o meno prolungate dovute alle particolari esigenze della vita quali ragioni di studio, di lavoro, di cura o di svago. Con riguardo, infine, al domicilio, esso, ai sensi dell’art. 43, comma 1, c.c., è il luogo in cui una persona “ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi”.
Come anticipato nell’introduzione, le misure imposte dal governo per l’emergenza derivante da Covid-19 hanno fortemente ostacolato la libera circolazione delle persone, determinando di fatto un “immobilismo” o un “attivismo” forzato.
Si parla di “attivismo” forzato quando il cittadino italiano, residente all’estero, si trova costretto a tornare in Italia a causa, ad esempio, della pandemia in corso al fine di prestare assistenza ai propri familiari, viceversa si definisce “immobilismo” forzato la situazione di stasi o blocco per la quale il cittadino, sia italiano che non, non può tornare nel proprio paese di origine.
Un esempio è quello del cittadino italiano, regolarmente iscritto ai registri anagrafici, provvisoriamente all’estero per esigenze lavorative/studio/salute, che sia rimasto “bloccato” fuori dal proprio paese di origine. In tale caso continuerà ad operare la presunzione assoluta di residenza in Italia, tuttavia potrebbero sorgere dubbi circa un’ipotetica “doppia residenza” determinata dalla circostanza di dover restare, contro la propria volontà, in una residenza diversa. In tal caso bisognerà far riferimento all’art. 4 M-OCSE che prevede, al par. 2, una serie di regole (le cd. “tie breaker rules”) volte a individuare, convenzionalmente, il Paese di residenza del percettore del reddito.
Per quanto attiene invece alle nozioni di residenza e domicilio occorre, come detto, fare riferimento all’art. 2 TUIR. Per l’acquisizione della residenza civilistica, secondo la giurisprudenza prevalente, occorrono due presupposti che devono sussistere contestualmente, ovvero il vincolo con il territorio, dato dal termine “dimora”, e l’elemento soggettivo della volontarietà, che risulta dal concetto di “abitualità”. Ne deriva che la residenza non viene meno quando la persona, ad esempio per questioni di lavoro o per altra causa personale, si sposti al di fuori del comune di residenza, a patto che conservi l’abitazione e vi rientri non appena possibile con l’intenzione di fermarvisi stabilmente.
In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione, la quale ha evidenziato che “il requisito dell’abitualità della dimora, necessario affinché la dimora stessa costituisca residenza (art. 43, comma 2, c.c.), presuppone non soltanto l’oggettivo protrarsi della permanenza in un determinato luogo, ma anche la volontà di rimanere stabilmente nel luogo medesimo. Ne consegue che un prolungato allontanamento dalla residenza non vale, di per sé, a dimostrare lo spostamento della residenza medesima nel luogo di dimora, occorrendo a tal fine la prova che esso si ricolleghi ad una volontà di stabile inserimento in quel diverso luogo, e, quindi, non a motivi e ragioni di ordine contingente” (Corte di Cass., 23 febbraio 1977, n. 792).
Nel caso sopra esaminato, nessun dubbio sussiste circa l’elemento soggettivo del cittadino italiano rimasto bloccato causa Covid-19 all’estero per lavoro/vacanza/studio, avente la residenza fiscale italiana. Come ripetuto più volte, la residenza non viene infatti meno quando la persona, per questioni di lavoro o per altra causa, si sposti al di fuori del Comune di residenza, conservandovi l’abitazione e rientrandovi quando possibile, dimostrando l’intenzione di mantenere un legame stabile con il luogo.
Quanto invece alla sussistenza dell’elemento soggettivo nel caso del cittadino italiano, ma residente all’estero, che abbia deciso di ritornare in Italia poco prima o durante lo scoppio della pandemia occorre qualche valutazione in più. In primis è necessario stabilire, infatti, quali sono nel concreto le effettive motivazioni che hanno spinto il soggetto a ritornare in Italia, poiché non è possibile escludere che tale ritorno rappresenti espressione di una volontà di ricongiungimento al proprio centro di interessi, integrando di fatto la nozione di “domicilio” di cui all’art. 43, comma 1, c. c.
Come anticipato, l’OCSE, mediante un documento dello scorso 3 aprile sottoscritto dal proprio segretario generale, in considerazione dell’esplosione della pandemia Covid-19, ha ritenuto opportuno dettare alcune linee guida anche in materia di residenza fiscale delle persone fisiche. In particolare, si fa riferimento a due scenari: il primo riguarda colui che temporaneamente è lontano da casa (in vacanza o per lavoro) perché rimasto bloccato nel Paese ospitante a causa della crisi del Covid-19 ove ottiene la residenza nazionale e il secondo colui che lavora in un Paese (il “Paese d’origine attuale”) e vi ha acquisito lo status di residente, ma ritorna temporaneamente nel “Paese d’origine precedente” a causa dell’emergenza Covid-19. Si tratta di un soggetto che potrebbe non aver mai perso lo status di residente del precedente Paese di origine in base alla legislazione nazionale, oppure che potrebbe riacquistare lo status di residente al suo ritorno.
Nel primo caso, secondo le linee guida OCSE, è improbabile che la persona acquisisca lo status di residente nel Paese in cui si trova temporaneamente a causa di circostanze straordinarie. Nel secondo caso, per le linee guida, è ancora una volta improbabile che la persona riacquisti lo status di residente per essere temporaneamente ed eccezionalmente nel precedente Paese di origine.
Avvertenza: Il presente documento ha il solo scopo di fornire aggiornamenti e informazioni di carattere generale. Non costituisce pertanto un parere legale né può in alcun modo considerarsi come sostitutivo di una consulenza legale specifica. Per valutazioni più specifiche si invita a contattare l’avv. Enrica Caon e gli altri collaboratori dello studio – avv.caon@vis-legis.it
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