STUDIO LEGALE MENICHETTI
Riflessi sul rapporto di lavoro di condotte extralavorative censurabili del dipendente
di Elena Bissoli
Con la sentenza n. 8390/2019 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema, assai dibattuto negli ultimi anni, relativo alla rilevanza disciplinare di condotte riprovevoli – perché contrarie a norme penali od anche solo al cd. minimo etico comune o a norme comuni del vivere civile – assunte dal dipendente nella propria vita privata (e, quindi, estranee all’esecuzione della prestazione lavorativa).
La Cassazione ha ritenuto, nel caso sottoposto al suo vaglio, che il giudice d’appello, riformando la sentenza di primo grado, avesse operato una corretta valutazione del comportamento tenuto dal lavoratore al di fuori dell’ambiente di lavoro, nel cd. privato, sostanziantesi nell’aver minacciato un soggetto terzo (condotta penalmente rilevante e per cui lo stesso lavoratore aveva subito, peraltro, una condanna per il reato di minacce gravi).
Tale fatto, posto a fondamento del licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro al proprio dipendente, era stato ritenuto dal giudice di secondo grado – con decisione ritenuta giusta dalla S.C. – non così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto lavorativo, disattendendo, quindi, la pretesa ricorrenza, per estraneità al rapporto, delle vicende assunte come un grave vulnus al vincolo fiduciario che deve sussistere tra datore di lavoro e lavoratore.
In particolare, la S.C. ha valutato che la condotta oggetto di contestazione disciplinare non avesse avuto alcuna incidenza sulla capacità del lavoratore licenziato d’assolvere correttamente per il futuro la sua prestazione, soprattutto in considerazione del fatto che “la minaccia pronunciata fuori dall’ambiente lavorativo e nei confronti di soggetti estranei ha una valenza diversa, nell’accertamento della lesione del vincolo fiduciario, rispetto a quella profferita nei confronti del datore di lavoro o in ambito lavorativo, perché non incide intrinsecamente sugli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione cui è tenuto il dipendente nei confronti di un suo superiore. Essa, infatti, quando – come nel caso de quo – non risulti avere un riflesso sulla funzionalità del rapporto e non abbia compromesso le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, non si rivela incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario al quale il rapporto di lavoro stesso si fonda né si manifesta come una condotta gravemente lesiva delle norme dell’etica e del vivere civile tale da costituire giusta causa di licenziamento. Correttamente, quindi, il comportamento del V. è stato ritenuto non idoneo a ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto di lavoro secondo gli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà civile”.
La pronuncia in esame s’inserisce in quell’orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo cui, quando il comportamento lavorativo o extralavorativo riveste carattere di contrarietà al cd. minimo etico o alle norme del comune vivere civile, la sanzione è irrogabile dal datore di lavoro, anche in forma espulsiva, a prescindere dalla mancata previsione di quella condotta, illecita o solo riprovevole, nel codice disciplinare, dovendosi ritenere delegata al giudice la valutazione circa la proporzionalità della sanzione alla trasgressione, ai di fini del rispetto di congruità ex art. 2106 c.c..
A tale orientamento, si è contrapposto altro maggiormente garantista della conservazione del posto di lavoro in presenza di comportamenti extralavorativi pur sempre riprovevoli, che espunge dalle condotte passibili di licenziamento per giusta causa qualsiasi comportamento del dipendente che non abbia alcuna incidenza, neppure indiretta, sulla sfera contrattuale.
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